Risveglio

Circa 2500 anni fa, il giovane Siddhartha Gautama (563-483 a.C.), dopo una giovinezza molto agiata nella casa paterna, si accorse della dura realtà della vita segnata inesorabilmente da malattia, vecchiaia e morte. Profondamente colpito e avvertendo di non potere trovare né pace nella ricchezza né sicurezza nelle guardie del palazzo, all'età di 29 anni, si propose di cercare il significato della vita seguendo gli insegnamenti degli asceti del suo tempo. Affrontò sei anni di terribili rinunce, mortificazioni e penitenze finché non riconobbe che lo stile di vita abbracciato, alla pari di quello agiato che aveva abbandonato, non lo aiutava a sostenere il peso dell’esistenza e anzi lo portava alla perdizione.

Improvvisamente, dopo aver meditato intensamente durante una “notte molto scura”, Siddhartha intuì profondamente la sofferenza esistenziale degli esseri umani; ne comprese le cause e individuò un percorso per preservarsene e risolverla.

Nel 528 a.C., nel “parco delle gazzelle” vicino Benares, il Buddha espose ai suoi primi cinque discepoli le Quattro Nobili Verità che aveva compreso durante la lunga meditazione:

  1. C’è sofferenza;
  2. Questa sofferenza ha una causa: il desiderio bramoso;
  3. Questa causa può essere eliminata;
  4. A tale scopo è necessario intraprendere un percorso di rettitudine che si sostanzia in una combinazione di saggezza, etica e meditazione.

Il discorso di Benares è considerato l’evento che ha dato inizio alla dottrina buddhista.

Alcuni autori mettono in evidenza che la radice della sofferenza umana può essere ricondotta alla mancanza di libertà che ogni individuo prova in quanto essere condizionato dalla sua natura di creatura immersa in questa realtà fisica e psicologica (siamo condizionati da malattia, vecchiaia e morte, in tutte le possibili accezioni). Il condizionamento ci porta a reazioni di tipo “Attacchi o fuggi”. Queste reazioni basilari, adattative per un animale inserito nello schema naturale predatore-preda, non sono tuttavia del tutto adeguate nel mondo degli uomini: spesso vengono messe in atto nelle situazioni più varie e complesse della vita quotidiana, dei rapporti di lavoro e, addirittura, delle relazioni affettive e conducono a comportamenti obbligati, schematici, a volte pregiudiziali o addirittura compulsivi. Nonostante questi schemi siano ben noti e numerose teorie psicologiche puntino ad un loro superamento, l’essere costretti a certi comportamenti rimane oggi, come ai tempi di Buddha, fonte di grande sofferenza.

Le quattro Nobili Verità possono essere così ulteriormente spiegate:

  1. la sofferenza che pervade tutta l’esistenza consiste nella frustrazione che proviamo ogni volta in cui non riusciamo ad accettare il cambiamento di ogni cosa, che ci opponiamo allo scorrere della vita e ci attacchiamo a forme fisse – praticamente sempre;
  2. la causa della sofferenza è la presunzione degli esseri umani di essere soggetti conoscenti ed agenti che cercano di cristallizzare ciò che è mutevole ed impermanente;
  3. la sofferenza può essere superata rinunciando alla condotta per la quale “siamo destinati a subire una frustrazione dopo l’altra”. Dobbiamo interrompere le concatenazioni di cause ed effetti in cui si sviluppano e si avviluppano le spiegazioni ultra-razionali che rimandano sempre ad altre spiegazioni; dobbiamo fermare l’azione che richiede sempre altre azioni in un ciclo senza fine di errori e goffe correzioni, offese e riparazioni, fare e disfare...
  4. il superamento della sofferenza si realizza attraverso la rettitudine cercata e perseguita nell’area della conoscenza (comprensione e motivazione), nell’area dell’etica (comunicazione, comportamento e sostentamento) e nell’area della meditazione (impegno, concentrazione e consapevolezza).

Secondo l’intuizione del Buddha, la sofferenza umana sta nella frizione ineliminabile tra la volontà di costruzione, di conoscenza e infine di controllo del reale da parte dell’Ego e l’effettiva possibilità di esercitare tale controllo. L’Ego ha bisogno di controllare la realtà, di definirne i confini, di considerarla stabile e codificata, fatta di cose. Per rispondere a questi bisogni, l’Ego si illude di essere soggetto conoscente, giudicante ed agente.

Nella pratica meditativa, si può arrivare a questa stessa intuizione (insight). L’obiettivo della Meditazione di consapevolezza – ammesso che si possa parlare di obiettivo - è proprio quello di liberarsi da un eccessivo condizionamento e dalla sofferenza che ne deriva. Questo de-condizionamento è liberatorio poiché aumenta le nostre possibilità di scelta e di comportamento; inoltre è notevole ed interessante; è fonte di gioia e favorisce l’amore incondizionato.

 

La meditazione

Nell’area della meditazione bisogna dedicare un notevole impegno alla concentrazione e alla consapevolezza1.

La concentrazione, detta meditazione di assorbimento o meditazione samatha, si propone di far convergere il flusso dei pensieri fissando la mente su un singolo oggetto, come fa la lente ottica che concentra in un punto un fascio luminoso e consente di mettere a fuoco gli oggetti. Non importa quale sia l’oggetto di concentrazione e ogni scuola insiste su un oggetto privilegiato: può trattarsi di un testo rituale (mantra), un’immagine (mandala), esercizi fisici o “semplicemente” il respiro. In particolare nella meditazione Vipassana gli oggetti della pratica sono il respiro e la camminata. Entrambi gli esercizi mirano a concentrare la mente mentre pensieri e altri fatti psichici premono per invaderla, cercando di distrarre il meditatore dal compito di base. Il verificarsi di questi eventi diventa a sua volta oggetto di un’osservazione attenta: il meditatore ne prende atto e poi “lascia andare” per tornare all’esercizio di base (osservazione del respiro o della camminata). Sforzandosi di mantenere la concentrazione, accede ad una successione di stati di coscienza nuovi che costituiscono un’esperienza mirabile e pacificatrice.

Al di là della concentrazione vi è la pratica di consapevolezza. La consapevolezza è l’essere presente all’insorgere delle sensazioni, delle emozioni e dei pensieri, l’accorgersi del verificarsi dei fatti di coscienza nell’immediatezza dell’evento. Il meditatore si confronta sistematicamente con i nudi fatti della sua esperienza nel qui e ora, osservando ogni evento come se gli capitasse per la prima volta.

La consapevolezza può essere raggiunta indipendentemente dal livello di concentrazione anche se alcuni ritengono che il livello più adatto sia quando ci sono ancora processi mentali di cui diventare consapevoli: con una concentrazione minore2, pensieri ed emozioni sono ancora così forti da competere per prendere il sopravvento sulla mente e possono diventare oggetto di pratica.

Quando li osserviamo senza giudicarli, i pensieri vengono, vanno e si dissolvono. Progressivamente il meditatore comprende che l’attività della mente con cui la mente stessa viene osservata non è descrivibile verbalmente; si tratta di una consapevolezza costituita da un’immediata esperienza di questo processo. La meditazione porta all’insight in cui ogni cosa appare in costante divenire, in continua dialettica con il suo opposto, in un continuo processo trasformativo.

“Non appena il meditatore comprende che la sua realtà personale è vuota di sé e in perpetuo cambiamento è portato a uno stato di distacco dal suo mondo esperienziale. Da questa prospettiva distaccata, le qualità di impermanenza (anicca) e impersonalità (anatta) della sua mente lo inducono a considerarla [la mente stessa] come fonte di sofferenza (dukka)”. A questo punto può diventare “chiaro” che la radice della sofferenza è l’attaccamento al sé; cercare e consolidare questa chiarezza nella comprensione della realtà e dell’esistenza è l’impegno che il meditatore riserva all’area della conoscenza.

Dopo aver intuito le tre caratteristiche dell’esistenza bisogna continuare la pratica di meditazione con forza e disciplina (motivazione ed impegno anche nell’area dell’etica); in questo modo si può raggiungere l’equanimità a sua volta base di sentimenti ed emozioni positivi come benevolenza, compassione e gioia.

Mi piacerebbe approfondire il tema dell’equanimità perché ci vedo qualche relazione con la congruenza teorizzata da Rogers e da altri come caratteristica essenziale del counselor che accoglie i problemi del cliente senza farsi destabilizzare. Inoltre mi piace anche vedere una qualche vicinanza con la centratura del praticante di Aikido che accetta nel proprio movimento circolare e centrato – la cosiddetta sfera dinamica - la minaccia di uno o più attaccanti, per poi rispondere con misura e senza giudizio.

Praticando l’equanimità il meditatore procede ad una sorta di reset del processo di coscienza che rompe il condizionamento. Anche il bisogno di sentirsi come il soggetto agente e controllante viene meno: si ha la visione chiara e pacifica che non c’è possibilità di controllo e che tutti i fenomeni sono condizionati solo dalle leggi della natura.

E’ importante rendersi conto che questo passaggio non può essere fatto per forza di volontà o per ragionamento razionale; non si tratta dell’enunciazione di una proposizione scientifica e tanto meno della dimostrazione di un teorema: deve semplicemente accadere.
Il cammino può dare l’impressione - ed è stato talvolta interpretato - come quello di conseguire sostanzialmente l’astrazione, l’indifferenza e la fuga dal mondo e quindi di svilupparsi in senso antisociale. In realtà il meditatore si libera completamente dall’Ego e lo riconosce come un processo adattabile al divenire. Si può allora lavorare per altri importanti cambiamenti nel comportamento e nella personalità: estinzione di ogni desiderio, attaccamento o interesse personale; estinzione di lussuria, aggressività e orgoglio. Dopo che tutti gli stati negativi sono stati eliminati, si possono sviluppare e stabilizzare definitivamente stati più positivi come la gentilezza amorevole, la compassione e la gioia condivisa, in altre parole l’Amore.

 

L'incontro con le neuroscienze

Grazie alle nuove tecnologie e metodologie è possibile indagare le onde cerebrali (tracciati EEG), il flusso sanguigno (ecodoppler, BLOD,…), i livelli di attività delle diverse regioni cerebrali (Risonanza magnetica, algoritmi di elaborazione delle immagini, elaborazioni statistiche) e quindi studiare i correlati neurofisiologici degli stati meditativi. L’investigazione si rivolge alla capacità dei meditatori di attivare selettivamente zone specifiche del cervello e quindi di intervenire sugli stati di attivazione del talamo controllando la propensione all’azione e la produzione di pensieri dilaganti. E’ stato evidenziato che la meditazione ha effetti significativi sull’attenuazione del pensiero automatico e non produttivo che cattura l’attenzione e può limitare la libertà personale. Dopo un addestramento breve si evidenzia un’aumentata attivazione della Corteccia Cingolata Anteriore (CCA) il cui deficit è stato correlato con il deficit dell’attenzione, con le dipendenze, la demenza, la depressione, la schizofrenia. Proprio recentemente alcuni studi hanno correlato l’attivazione di una regione della CCA con la capacità empatica.

Alcune pratiche di meditazione riescono a «spegnere» l’attività di alcune aree cerebrali (Default Mode Network (DMN)) responsabili dell’insorgere nella mente di ansietà, preoccupazioni sul futuro e dell’incapacità di concentrarsi semplicemente sul presente.

La DMN risponde soprattutto a compiti orientati internamente come prendere decisioni sul proprio stato, ricostruire a memoria una scena o immaginare il futuro; altre regioni neurali, i sistemi sensori e motori, rispondono a stimoli ed obiettivi esterni. I due sistemi sembrano in concorrenza tra loro, al punto che i loro livelli di attività risultano anti-correlati nel tempo, anche quando i soggetti sono “a riposo” e non eseguono alcun compito. L’anti-correlazione tra i sistemi estrinseco e intrinseco si è rivelata più forte durante la pratica meditativa di focalizzazione dell’attenzione.

Questi risultati suggeriscono che, come l’attività della DMN, come l'anti-correlazione tra i sistemi estrinseci e intrinseci, alcune proprietà dell’organizzazione cerebrale non sembrano immutabili e che la pratica di diverse forme di meditazione sarebbe in grado di modularle in modi profondamente diversi.

Altre evidenze insisterebbero sulla facoltà di alcuni meditatori di dare risposte selettive allo stress. Essi sono in grado di rispondere efficacemente a situazioni stressanti per poi ritornare facilmente e rapidamente a situazioni di recupero con una conseguente minore possibilità di esaurimento delle energie mentali.

 

Nuovi impulsi e il protocollo MBSR

Su questo sostrato culturale radicato nella tradizione sapienziale ma investigato a livello scientifico, nasce in una prospettiva più laica ed applicativa il protocollo MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) definito dal Prof. Jon Kabat Zinn alla fine degli anni ’70 presso la Scuola di Medicina dell’Università di Worcester in Massachusetts. L’MBSR

  • ha mostrato di essere molto efficace in situazioni di disagio che costituiscono per le persone una forma grave di menomazione dello stile di vita: vivere gravi malattie, il dolore cronico, il lutto, la separazione, relazioni lavorative e familiari, situazioni sociali deteriorate nonché l’impegno in una società e in ruoli sempre più esigenti;
  • trova spazio in programmi di intervento nelle carceri e nelle scuole, e in varie organizzazioni al fine di affrontare molte delle problematiche sia fisiche sia psicologiche legate allo stress;
  • realizza un addestramento intensivo alla meditazione di consapevolezza, definita anche come “auto-regolazione intenzionale dell’attenzione”. La pratica si è rivelata utile (come dimostrano un numero significativo di studi recenti di neuroscienze) ad aiutare le persone a prendersi cura di se stesse per vivere in modo più sano, imparando ad adattarsi alle circostanze della vita e alleviando la sofferenza esistenziale.
  • aiuta a coltivare una modalità di relazione non autoreferenziale verso l’esperienza cognitiva, emotiva e sensoriale dolorosa, a disattivare intenzionalmente gli automatismi dei pensieri, a limitare la tendenza alla proliferazione mentale e quindi a liberarsi da un compulsivo e doloroso rimuginìo sulle esperienze dolorose.
  • in ambito aziendale, può essere un valido strumento di gestione dello stress lavoro correlato oltre che di miglioramento dell’approccio al lavoro e alla leadership.

La meditazione di consapevolezza non promette di risolvere problemi che, come nel caso di patologie fisiche e psichiche, richiedono l’intervento di professionalità specifiche (a cui l’operatore non si sostituisce) ma permette di entrare in relazione con le situazioni stressanti in modo nuovo, spezzando forme di automatismi che stabilizzano e amplificano lo stress.

Il protocollo MBSR si presenta come un corso per la gestione dello stress strutturato in 8 incontri di circa 2 ore ognuno e un intensivo di un’intera giornata in cui si svolgono sessioni di meditazione e momenti di condivisione delle esperienze.

Il training alla meditazione di consapevolezza, pur nella scia della tradizione buddista, viene presentato in modo molto più discorsivo, inquadrato con riferimenti alla psicologia occidentale e integrato da compiti ed esercizi. Anche gli esercizi di meditazione sono introdotti in variazioni più o meno significative rispetto alle forme primarie del “sedersi respirando” e della “meditazione camminata”. Gli oggetti di meditazione, proposti in sessioni guidate, variano a partire dalla consapevolezza corporea e degli stati emotivi per arrivare molto progressivamente alla meditazione senza guida.

La parola consapevolezza, in inglese mindfulness, è la traduzione di “satì” che (in lingua Pali) significa “essere presente” da qui consapevolezza come “presenza mentale”. Allora la consapevolezza è “essere semplicemente lì dove si è presenti a ciò che c’è così come è”.

Essendo l’MBSR uno metodo per la riduzione dello stress, l’illustrazione e l’approfondimento, anche in termini scientifici, della nozione di stress e dei metodi per la sua gestione è un momento importante del percorso. In particolare vengono introdotte le teorie di Cannon secondo cui lo stress è la naturale condizione dell'essere vivente che risponde agli stimoli dell'ambiente per mantenersi in equilibrio e di Selye secondo il quale nelle risposta allo stress possiamo riconoscere delle fasi progressive che conducono all'esaurimento del soggetto quando le risorse di cui esso dispone non sono più sufficienti a far fronte agli stimoli ambientali.

I problemi dell’impermanenza e del non-sé della tradizione buddista vengono rivisitati nella pratica MBSR in una direzione più consona allo spirito e alla cultura occidentali. “Osservare l’impermanenza dei pensieri e delle emozioni può aiutare a distinguere tra le esperienze effimere ed il sé costante”. Quando il soggetto riesce a disidentificarsi dai contenuti di coscienza – pensieri, emozioni e giudizi di valore - riesce a vedere e considerare con maggior chiarezza l’esperienza momento per momento; ancorarsi ad una più diretta esperienza del momento presente può consentire di differenziare il dolore dalla sofferenza che è il dolore aumentato dalla resistenza ad esso; consente distinguere la reattività, cioè il bisogno di reagire automaticamente secondo antichi schemi, dall’abilità di rispondere dopo elaborazione (che poi è responsabilità). Nel contesto della mindfulness, possiamo intuire (insight) che non siamo né ciò che pensiamo, né il dolore che proviamo; possiamo intuire di essere qualcosa di più (chiarificazione dei valori).

 

(23 settembre 2016)

 

Questo articolo è stato pubblicato in forma ridotta sul n. 2 (autunno 2016) di Ké-Novità, il magazine trimestrale dell'Associazione Kénosis.

 

 


1) Lo schema classico della meditazione buddista prevede tre fasi: purificazione, concentrazione e penetrazione. Tra queste fasi non esiste una precisa sequenzialità ma piuttosto un ciclo di continua interazione. La purificazione consiste nel rinunciare a quei comportamenti e a quei pensieri che distolgono l’attenzione e che provocano un dispendio ingiustificato, uno sperpero di energie. Si rinuncia alle fantasie sessuali, alle sregolatezze di ogni genere ma anche a trasgressioni minori come cedere alle chiacchiere e alla gola,… Il fine della purificazione è semplicemente una mente calma e matura per la meditazione. Nello Zen si pone l’accento soprattutto sul momento presente e sulla presenza mentale in tutto il suo dispiegarsi e pertanto il risveglio è immediato e non ha bisogno di fasi.

2) Addirittura in alcune scuole Zen si preferisce non parlare di concentrazione. Nella pratica Vipassana invece si ritiene che la pratica della concentrazione rafforza e rende più vivida la consapevolezza.